Dal volume Professore, io ho studiato –  Lo studente modello viene interrogato (1916)

(Tanár úr kérem  – A jó tanuló felel)

Lo studente modello è seduto al primo banco dove sono in tre, in mezzo c’è lui: Steinmann, lo studente modello. Il suo nome non serve semplicemente per indicare una persona, ma è diventato un simbolo. Infatti, ogni studente nella classe e anche i loro rispettivi padri conoscono il suo nome. “Steinmann perché è riuscito ad impararlo?” – chiedono a casa trentadue padri da altrettanti figli. “Chiedi a Steinmann di spiegartelo,” – dice il padre al figlio ed egli glielo chiede davvero. Steinmann sa tutto in anticipo prima che lo cominciassero a spiegare. Scrive per riviste matematiche, conosce parole misteriose che vengono insegnate solo all’università. Ci sono cose che sappiamo anche noi, ma come lo sa Steinmann, beh, quello sì, che è davvero giusto, quello è l’Assoluto.

Steinmann viene interrogato.
Questo è un momento speciale, solenne. Il professore guarda il registro a lungo, mentre sulla classe incombe una tensione mortale. Quando, in seguito lessi del regime di terrore durante la Rivoluzione Francese, quando vengono selezionati i condannati a morte tra i prigionieri della Conciergerie: ecco, doveva essere qualcosa di simile. I cervelli stanno boccheggiando in cerca d’aria in uno sforzo disperato, ancora due secondi, tutti richiamano alla memoria gli elementi della progressione geometrica. Professore, io ho studiato, si ripetono tutti nella mente. Professore, ieri mio figlio stava male…

Uno studente si nasconde abbassandosi sopra il quaderno come uno struzzo. Un altro fissa negli occhi il professore, cercando di ipnotizzarlo. Il terzo, con i nervi a fior di pelle, si accascia, chiude gli occhi, si arrende alla scure. Nell’ultimo banco Eglmayer si nasconde completamente dietro Deckmann: lui, non c’è, grazie, non sa di niente, possono scrivere il suo nome tra gli assenti, cancellarlo dalla lista dei vivi, riposi in pace, lui non vuole partecipare alla lotta della vita sociale.

Il professore gira due pagine, starà alla lettera K. Altmann, che all’inizio dell’anno ha cambiato il suo nome per Katona, in questo momento è profondamente rammaricato per il passo frettoloso. Ma poi tira un sospiro, quando le dita del professore si fermano e chiudono il registro. “Steinmann!” dice il professore a voce bassa e con solennità.

Tutti tirano un sospiro di sollievo, Questo è un momento particolare, eccezionale. Steinmann scatta, il suo compagno di banco salta in piedi per farlo uscire, aspettando con umiltà e cortesia, come una guardia del corpo: è un personaggio secondario, decorativo di questo grande evento.

Anche il professore è solenne. Si siede di lato su una sedia, con i polpastrelli delle mani uniti, pensoso. Lo studente modello va alla lavagna e prende il gesso. Il professore è immerso nei pensieri. Lo studente modello intanto afferra il cancellino e velocemente comincia a pulire la lavagna. C’è una eleganza in tutto questo: con il gesto vuole esprimere che egli non ha fretta, non deve sforzarsi di pensare, non ha paura, è sempre pronto, ma, nell’attesa che cominci l’interrogazione, può fare qualcosa utile per la società, per la pulizia pubblica, contribuire al progresso pacifico dell’umanità e così pulisce la lavagna.

“Allora” dice il professore, pensieroso, strascicando la parola “vediamo qualche problema interessante”.

Lo studente modello tossisce con cortesia e con profonda comprensione. Certamente, un problema interessante, degno di questa situazione. Ora guarda il professore seriamente e con calore come se egli fosse una bella contessa a cui un conte ha appena chiesto la mano e, prima di rispondere, guarda con comprensione e simpatia negli occhi del conte, sapendo che questo sguardo lo incanterà, mentre il conte con cuore trepidante sospetta che la risposta sarà positiva.

“Allora prendiamo un cono… ” dice il conte.

“Un cono” ripete Steinmann, la contessa.

Già il modo come egli pronuncia la parola, con tanta comprensione, con tale intelligenza. Solo lui lo sa quanto è cono il cono in questione. Io, Steinmann, il primo di tutta la classe, prendo un cono, perché sono stato scelto dalla società come la persona più adatta. Ancora non so perché abbia preso il cono, ma potete stare certi tutti che qualsiasi cosa succeda io sarò al mio posto e saprò come farvi fronte.

“Altrimenti”, dice improvvisamente il professore, “prendiamo piuttosto un tronco di piramide”.

“Un tronco di piramide” ripete lo studente esemplare, se possibile in un modo ancora più intelligente. Egli con esso ha un rapporto altrettanto deciso, amichevole se non superiore, come con il cono. Non si fa certo intimidire da un tronco di piramide. Sa benissimo che un tronco di piramide è come una piramide normale, piramide semplice di cui anche Eglmayer riesce a capacitarsi, da cui è stata tagliata via un’altra piramide.

L’interrogazione dura poco. Si capiscono da mezze parole, loro: lentamente si forma un dialogo intimo tra il professore e lo studente modello. Noi ormai non ci capiamo nulla, questo è un affare tra loro due, anime gemelle che si uniscono qui davanti a noi, nell’atmosfera rarefatta di equazioni differenziali. Nel mezzo di una frase il professore si rende conto che praticamente stanno conversando, ma questa dovrebbe essere un’interrogazione, per giudicare il progresso dello studente. Ma che senso ha finirla? C’è rimasto magari qualche dubbio che egli la sappia completare?

Lo studente modello, modesto e ben educato, torna al suo posto. Un minuto più tardi osserva con enorme interesse il balbettare del prossimo interrogato e cerca di carpire lo sguardo del professore, per fargli vedere che lui, pur senza parole e senza muovere un muscolo del viso, col suo sorriso sprezzante stampato in faccia è perfettamente consapevole della gravità della cavolata che l’interrogato ha detto e sa anche cosa avrebbe dovuto rispondere.